Ho nominato tre pittori per il Premio Termoli, perché sento che la mia identità è in qualche modo, principalmente, legata a questo medium artistico. Due di questi, Luca Bertolo e Michele Tocca, accompagnano le mie riflessioni da diverso tempo e hanno formato il mio sguardo sulla pittura; la terza, Lorenza Boisi, ha avuto un ruolo fondamentale nell’instaurare un dialogo e rapporto con diversi artisti delle generazioni più giovani.
I dipinti di Michele Tocca fanno provare a chi li osserva la sensazione di camminare su un crinale sottile, in bilico tra un passato che il suo lavoro costantemente rievoca – e che può comprendere un territorio molto vasto: il Settecento e le immagini di paesaggio dei pittori del Nord in viaggio in Italia; certa pittura ottocentesca e i suoi tagli pre-cinematografici – e un presente che ha a che fare con un corpo (quello dell’artista) che strenuamente verifica la possibilità di guardare il mondo con i mezzi che continua a offrirgli la pittura, con i suoi limiti e la sua storia. Un qui e ora della visione: un qui e ora del ritrarre elementi dal vivo, stando di fronte al soggetto e senza ritocchi di studio a posteriori. Tocca si occupa di immagini di paesaggio – un paesaggio spesso visto dalla finestra di casa, di cui registra giorno dopo giorno le variazioni atmosferiche – o domestiche (di cose che però si impregnano del fuori): immagini sempre un po’ storte, di terre e crepe, o di vapori e nuvole. Qualche volta con Tocca ho scherzato sul fatto che la sua tavolozza tende a convergere verso colori fangosi, o verso i toni del marrone. Ovviamente non è del tutto vero, anche se spesso i suoi colori hanno qualità pastose e opache, ma di frequente controbilanciate da azzurri e bianchi che, in zone laterali, entrano nell’immagine. Della sua parete di Termoli mi impressiona il movimento: una visione su un paesaggio che si contamina di vapori e nuvole, larga ma verticale, come in genere non è il paesaggio; una visione stretta su un tronco di legno (con pennellate che descrivono pieghe e crepe della materia e il cielo che fa capolino di lato, lungo il margine destro del dipinto); una giacca usata, impregnata di vapori e umidità, direi una “giacca paesaggio”.
Lorenza Boisi è capace di tenere insieme un registro molto colto, di continui rimandi a una pittura storica – ad esempio alla dissimulata e poetica naïveté di artisti primo novecenteschi –, e un approccio apparentemente dimesso e spensierato. I suoi dipinti fanno spesso l’effetto di disegni, ma disegni realizzati sulla tela ed esclusivamente con il pennello. Le sue immagini assecondano un movimento arioso e discontinuo; disseminate, come sono, di pennellate e gesti multidirezionali e instabili, ora più fluidi ora più secchi, balbuzienti e sincopati, di lacune e spazi bianchi. Ogni sua immagine ha dunque un carattere agile e movimentato, è percorsa da un vento che scompagina le cose per agglutinarle magicamente, magari, in punti inaspettati della superficie. Quest’aria, questo vento, è ciò che permette a Boisi di far dialogare i due lavori esposti a Termoli, capaci di evocare due tempi lontani ma intrisi di una comune dimensione bucolica: un soggetto della classicità, rivisitato, e una visione invernale di un pastore con il suo cane. Tutto avviene su un primo piano molto ravvicinato, un primo piano che fa pensare a Matisse oppure, per essere più precisi, a Raoul Dufy, la cui arte, come dice il poeta e saggista Iosif Brodskij in un’intervista, «è apparentemente molto leggera e al contempo molto profonda»[1]. Dufy, inoltre, è unico nel modo di far entrare il bianco nella partitura cromatica, con linee che sembrano corrispondere a graffi e scorticature dell’immagine, e credo che questo aspetto sia molto importante per Boisi.
Il lavoro di Luca Bertolo, infine, guarda alla pittura come una gamma di potenzialità da esplorare simultaneamente, lontano da preoccupazioni di stile o affermazioni univocamente assertive. Il suo lavoro mi sembra diviso tra una parte analitica, meta-pittorica (tesa cioè a rispondere a una domanda: cosa significa oggi dipingere figure mentre queste figure le vedi apparire sulla superficie del dipinto?); e un’altra parte che fa un po’ da contraltare, più abbandonata, dimessa e lirica. Molto spesso queste due dimensioni convivono nello stesso dipinto e creano una specie di cortocircuito. Non saprei dire a che parte appartiene Alba mediterranea: vero e proprio trompe-l’oeil, ovvero riproduzione di un retro di una tela con tutte le sue impurità e sporcizie; una serie che l’artista ha cominciato diversi anni fa. Ogni rovescio è il racconto di una impossibilità ed è sotteso da diverse domande che si rincorrono attorno al dipinto e a un’immagine che lo spettatore si sente di non poter vedere. Alba mediterranea allude alla possibilità di un grande paesaggio che un pittore starebbe realizzando mentre se ne sta da qualche parte a guardare l’orizzonte. Se non fosse che qualcos’altro (del mondo) fa irruzione nello spazio del dipinto e della contemplazione e buchi simili a spari rompono la tela in diversi punti. Facendo riferimento alle domande che circolano attorno ai rovesci di Bertolo, è possibile, per un pittore, scegliere di abbandonarsi alla vista e alla descrizione della natura mentre il mondo va in fiamme? Ed è ancora possibile, come fu per alcuni grandi artisti del passato, dipingere un grande paesaggio considerandolo, in qualche modo, un atto politico?