Narrazioni scomposte
di Bruna Roccasalva

Il Premio Termoli e la collezione che negli anni ha costruito raccontano il percorso di una sperimentazione che ha contraddistinto il panorama dell’arte italiana a partire dalla metà degli anni Cinquanta. La scelta di Linda Fregni Nagler, Adelita Husni Bey e Giulia Cenci nasce dalla personale convinzione che queste artiste, se da un lato sono un esempio di come oggi quel panorama sia articolato, ricco e sfaccettato, dall’altro rappresentano tre percorsi che, nella loro diversità, riflettono esigenze e assunti condivisi, primo fra tutti quello di riconoscere nell’arte uno strumento cognitivo attraverso il quale osservare, conoscere e anche re-immaginare il mondo. Nonostante ciascuna si confronti con le specificità linguistiche di forme espressive diverse, quali la fotografia nel caso di Fregni Nagler, la scultura in quello di Cenci e la performance per Husni Bey, i loro approcci hanno punti di contatto che in modo trasversale legano le loro pratiche e le ricerche di cui si nutrono.

Anche la permeabilità tra linguaggi è un aspetto che le accomuna: il modo in cui ognuna di loro si muove all’interno di uno specifico ambito di interesse non è mai circoscritto o aderente alle coordinate da cui tale ambito è definito, ma al contrario coincide con una riflessione sui parametri e i confini del linguaggio artistico prescelto, per ipotizzarne proiezioni future. Linda Fregni Nagler lavora con la fotografia ma usa di rado l’obiettivo per realizzare i propri lavori; Cenci ha un’attitudine alla scultura che è molto più vicina alla pittura; Husni-Bey trascende i confini di una forma espressiva come la performance per sconfinare in un territorio ibrido che si alimenta della contaminazione tra ciò che è finzione poetica e ciò che è reale.

Il lavoro di Linda Fregni Nagler esplora la natura intrinseca dell’immagine fotografica, toccando tutte le questioni che da sempre la riguardano: dalla rappresentazione alla traduzione, dalla narrazione alla sua verifica. Per Nagler lo scatto fotografico è un'opera aperta e tutta la sua produzione può essere vista come un laboratorio in cui l’immagine viene sottoposta a un continuo processo di riscrittura, che parte dall’appropriazione e la ripetizione, per arrivare a un risultato che non è prevedibile né ripetibile. Fragments of Healing Lights è un lavoro esemplare in questo senso, perché ci racconta del modo in cui l’artista entra nelle maglie della fotografia, di come si muove all’interno dell’immagine per analizzarla, capirla e indagarne ogni singolo aspetto, anche materiale. Il punto di partenza per la realizzazione dell’opera è una fotografia su vetro per lanterna magica (1). Da anni l’artista ricerca e archivia immagini che oggi costituiscono una collezione di oltre tremila esemplari, provenienti da tutto il mondo e dagli ambiti più svariati: una raccolta che Nagler considera «un’ambigua enciclopedia personale (…) un mosaico fatto di tanti pezzi e componibile secondo variazioni infinite» (2). In Fragments of Healing Lights un pezzo di questo “mosaico” viene a sua volta frammentato, per generare nuove immagini e altre storie. Parcellizzata, ingrandita, ristampata, l’immagine di partenza è sottoposta a una serie di procedimenti tecnici e chimici che le danno una nuova pelle, fatta di errori e imperfezioni. La sequenza di fotografie di cui si compone l’opera altro non è che il risultato del tentativo impossibile di ripetere e replicare quell’errore.

L’idea di frammento è centrale anche nel lavoro di Giulia Cenci, in questo caso all’interno di una ricerca che si interroga sulla natura del linguaggio scultoreo, ne mette in discussione assunti e presupposti e lo ripensa, provando a spostarne i confini e riscriverne le regole. In questo tentativo di mettere alla prova le potenzialità della scultura, Cenci non si pone limiti, confrontandosi ora con questioni tradizionali come massa, volume, peso e scala, ora con l’assemblaggio e il readymade, creando composizioni in cui non c’è mai una gerarchia tra le parti e in cui anche gli elementi strutturali, sempre rigorosamente a vista, sono componenti integranti dell’opera. Queste “coreografie” non appartengono più a una categoria definita, perché pur avendo a che fare sia con la pittura – hanno spesso un punto di vista unico, prospettico e quasi sempre frontale – che con la scultura, prendono in un certo senso le distanze tanto dalla bidimensionalità rigorosa della prima quanto dalla tridimensionalità in senso stretto della seconda. Questa attitudine a considerare l’elemento scultoreo come parte di un insieme più grande e a vivere il rapporto stesso con la scultura non come oggetto ma come ambiente, è anche un modo per accogliere all’interno dell’opera lo spettatore, in un’esperienza immersiva in cui l’immagine diventa un percorso da attraversare. Gli interventi di Cenci non occupano semplicemente lo spazio espositivo ma interagiscono con esso e lo trasformano, attivando ogni volta un rapporto dialogico tra oggetto, architettura e corpo. In questa dinamica a giocare un ruolo centrale è proprio quest’ultimo: decostruito, scomposto e ricomposto, il corpo è il punto di partenza per immaginare figure le cui sembianze zoomorfe sconfinano e si mescolano a tratti antropomorfi, intrecciandosi allo stesso tempo con strutture e oggetti meccanici. Anche la coppia di personaggi grotteschi di Pissing Figure nasce dall’assemblamento di oggetti meccanici e frammenti di calchi in resina di armature tassidermiche di animali e anatomie umane, per assumere le pose di una figura femminile e una maschile nell’atto di urinare.

Se le sculture di Cenci sono da intendersi come degli habitat, dei microcosmi che si reggono su regole proprie e ben precise, in modo analogo la pratica di Adelita Husni Bey si fonda sulla costruzione di microsistemi, all’interno dei quali si genera il lavoro. Questi microsistemi sono fatti però di persone, che l’artista riunisce all’interno di laboratori, workshop, gruppi di conversazione, per creare momenti di scambio che diventano poi generativi del lavoro stesso. Sono queste situazioni di natura partecipativa a innescare quelle riflessioni sulla costruzione della soggettività, sulla comunità, la società, l’educazione e sul rapporto tra identità individuale e collettiva, attorno a cui ruota tutto il lavoro dell’artista. I gruppi di persone coinvolti da Husni Bey entrano a far parte di un processo creativo collettivo, costruiscono significati attraverso le esperienze condivise che, molto spesso, riproducono i meccanismi della pedagogia anarco-collettivista – come avviene anche nel caso di The Reading / La Seduta, il lavoro video frutto di un workshop tenutosi a Manhattan nel febbraio 2017. I partecipanti al laboratorio eseguono una serie di scene basate sugli esercizi del Teatro dell'Oppresso (3) e partecipano a una lettura di tarocchi senza copione, condotta utilizzando dieci arcani maggiori disegnati dall’artista.

Al di là delle svariate corrispondenze che è possibile rintracciare nei lavori di Adelita Husni Bey, Giulia Cenci e Linda Fregni Nagler, credo ci sia un’affinità di fondo nel modo di rapportarsi all’opera, che non è mai considerata come un sistema chiuso, e di interpretare il loro ruolo come artiste, che non coincide soltanto con la produzione di oggetti ma con la costruzione di narrazioni in grado di ipotizzare nuovi modi di guardare, interpretare e confrontarsi con la realtà.






(1) La lanterna magica è un apparecchio inventato nel XVII secolo dotato di un sistema ottico e di una fonte di luce grazie ai quali ingrandisce e proietta su uno schermo bianco o su una parete immagini raffigurate su vetro. Può essere considerata una antenata del moderno proiettore cinematografico.

(2) Linda Fregni Nagler, Things That Death Cannot Destroy, L’Officiel Art Italia, n.1, Aprile 2017

(3) Il Teatro dell’Oppresso è un metodo teatrale che comprende differenti tecniche create dal regista brasiliano Augusto Boal a partire dagli anni Sessanta come una forma di educazione popolare basata sulla comunità. Progettati per non-attori, gli esercizi del Teatro dell’Oppresso sono intesi come un mezzo per indagare la vita da parte di persone e comunità intere e come strumento per il cambiamento sociale a livello individuale, locale e globale.