(Catania, 1974) attraverso la ceramica, l'incisione, il collage, l'animazione e il video, indaga il potenziale delle immagini. Ogni aspetto della sua pratica infatti interseca le loro origini e rappresentazione: siano esse naturali e artificiali, minerali e vegetali, scientifiche e mitologiche, mirando a creare una sorta di atlante della confusione. I suoi lavori sono stati esposti in istituzioni e rassegne internazionali, tra cui: La Biennale di Venezia (2017); MO.CO, Montpellier, (2022); MAXXI, L’Aquila (2021); Museo del Novecento, Firenze (2019); Bardo National Museum, Tunisi (2019); Foundacion Arte, Buenos Aires (2016); BI- CITY Biennale of Urbanism/Architecture, Shenzen (2020); Hayward Gallery, Londra (2022); Manif D’Art 5, The Quebec City Biennal, Canada (2010); Prague Biennale 4 (2009); Whitechapel Gallery, Londra (2018); Kunsthalle Winterthur, Svizzera (2016); Museo Tamayo, Messico (2013).
Il progetto Bruno’s House di Salvatore Arancio, vincitore dell'avviso pubblico PAC2021 – Piano per l'Arte Contemporanea promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, consiste in un gruppo di nuovi lavori, che rielaborano le suggestioni scaturite dalla visita di Arancio al Bruno Weber Park, non lontano da Zurigo.
Nella seguente intervista l’artista racconta, in conversazione con l’assistente curatrice del MACTE Marta Federici, il suo primo incontro con il parco di sculture svizzero e il percorso di ideazione e realizzazione delle opere ora parte della collezione del museo. Le parole di Arancio introducono le intenzioni che hanno ispirato il progetto, fornendo una sguardo più ampio su metodi e interessi che guidano la sua pratica artistica.
Marta Federici: Le opere che compongono il tuo lavoro Bruno’s House, ora parte della collezione del MACTE, nascono dalle suggestioni scaturite dalla tua visita al Bruno Weber Park in Svizzera: un parco di sculture e una casa costruiti dall’architetto e artista svizzero tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Duemila. Come hai scoperto questo luogo e cosa ha catturato la tua attenzione?
Salvatore Arancio: Molto spesso mi capita di scoprire casualmente i posti dove poi finisco a lavorare. Magari mentre faccio ricerche su internet o quando leggo le notizie; oppure, se sto presentando una mostra in una certa località, mi piace chiedere alle persone con cui sto collaborando o che mi hanno invitato, se c’è in quella zona qualcosa che potrebbe connettersi al mio mondo, all’immaginario dei miei lavori. Nel 2016 stavo preparando una mostra alla Kunsthalle Winterthur e il direttore artistico mi consigliò di andare a vedere il Bruno Weber Park. Mi sono preso un giorno libero durante l’allestimento per organizzare questa visita. Il Bruno Weber Park per me appartiene a una categoria di luoghi che amo particolarmente, in cui trovo tanta ricchezza e stimoli. Parlo di luoghi dove si perdono i canoni di quello che abitualmente ci circonda. Per me questo genere di spazi esprime un forte senso di libertà, prima di tutto la libertà che caratterizza la visione dell’artista che li ha creati: nella produzione di Bruno Weber c’è una commistione profonda tra mitologie popolari ed elementi fantastici che provengono da un immaginario totalmente personale. Ma penso anche al sentimento di libertà che provano i visitatori attraversando un luogo del genere. Noi non ci facciamo neanche caso, ma nelle città ci sono ovunque segnali e simbologie che indirizzano il comportamento degli abitanti, che guidano la nostra interpretazione nel comprendere la corretta funzione dei luoghi che articolano lo spazio pubblico. Quando arrivi in un posto come il Bruno Weber Park quei riferimenti scompaiono, è come arrivare in una foresta, puoi crearti una tua personale geografia all’interno di quello spazio.
In quel mondo ognuno può essere davvero quello che vuole, il corpo umano può entrare in metamorfosi con il mondo vegetale o con qualsiasi altro elemento. È questo ciò che mi stimola maggiormente, il fatto che tutto può succedere e che quello che vedi non è mai quello che è.
Come nasce il tuo desiderio di attivare un dialogo con il Bruno Weber Park tramite il tuo lavoro?
Penso che alcuni luoghi visionari come il Bruno Weber Park o altri che ho precedentemente incontrato nel mio percorso – come ad esempio la casa museo e il giardino di Asger Jorn ad Albissola – si offrano ai visitatori come spazi vivi. Quando mi trovo a guardare un dipinto spesso mi capita di pensare che c’è stato un momento in cui l’artista ha deciso di finire e chiudere quel lavoro. Questi ambienti invece mi sembrano in continua trasformazione: è come se gli autori avessero lasciato degli elementi, delle tracce, affinché altre persone in futuro potessero re-immaginarli e rielaborarli in delle nuove visioni. Quasi come se ci fosse una narrativa che continua ad evolvere. Trovo questo aspetto molto importante, perché parla di come si può preservare quello che è stato fatto in passato senza feticizzarlo o cristallizzarlo in un’immagine immutabile – al contrario. Sono dei posti vivi che continuano a evolversi con il tempo, che continuano a ispirare altri artisti.
In Bruno’s House poi c’è anche un discorso legato al funzionamento della memoria, perché sono passati ormai diversi anni dalla mia visita del 2016. In quell’occasione avevo portato con me una videocamera e ho potuto registrare la mia esperienza, conservare una mia personale visione del luogo. Da quella traccia, giocando con la memoria, ho creato le forme dei lavori che compongono Bruno’s House, che sono ispirati al ricordo delle sculture di Weber filtrato attraverso il mio subconscio.
Nel museo della casa di Weber ci sono dei murales che hanno un’apparenza misteriosa, quasi magica, e che mi fanno pensare agli immaginari comunemente legati all’uso di allucinogeni, o comunque a stati di percezione alterata della realtà. Ho deciso di utilizzare dei colori iridescenti e acidi nella smaltatura delle sculture in ceramica e nel video anche per questo richiamo a un certo tipo di cultura, legata all’uso di sostanze o a pratiche di perdita di coscienza e riconnessione con altri livelli di realtà. È anche una mia interpretazione di quella che potrebbe essere stata la vita di Bruno Weber, del suo modo di accedere alle sue visioni.
Uno dei lavori che compongono Bruno’s House è una scultura permanente, collocata nel giardino del MACTE. Come ti immagini che quest’opera venga fruita?
È la prima volta che realizzo un’opera pubblica come questa. Per me è a volte problematico il modo in cui le opere pubbliche vengono fruite, perché credo ci sia poco rispetto proprio nei confronti delle persone cui dovrebbero essere indirizzate. Per prima cosa, la scultura che ho ideato per il giardino del MACTE ha una funzione, questo per me è un aspetto fondamentale. La scultura si attiva e viene completata quando qualcuno ci si siede sopra. Bisogna anche pensare che a pochi metri da dove è collocata ci sarà forse un giorno l’ingresso della biblioteca del museo. Le persone che si troveranno lì per studiare o fare ricerca, potranno fare una pausa sostando su quella seduta.
La scultura è composta da blocchi in cemento che mimano dei pezzi di argilla grezza. L’argilla è un materiale che magari potrebbe sembrare noioso ma che invece apre tantissime possibilità. Questi blocchi è come se contenessero un impulso di vita interna, da cui emergono delle forme che affiorano sulla superficie. Le forme sono ispirate alle sculture che ho visto al Bruno Weber Park e sono a metà tra l’umano e il vegetale. Vorrei che queste presenze ibride ispirassero i visitatori del museo, consentendogli di uscire almeno brevemente dalle regole della vita urbana. Spero che la possibilità di sedersi e stare fisicamente a contatto con la scultura, favorisca un dialogo più profondo con il lavoro e faciliti la possibilità di perdersi in altri mondi. È una scultura pubblica che non vuole imporre l’ego dell’artista, ma piuttosto l’opposto: fare spazio all’immaginazione del fruitore. Mi immagino questo trono come una navicella spaziale: ti ci siedi sopra e prendi il volo per accedere a un altro spazio mentale, allontanandoti dalla città che si estende fuori dal museo.
Gli elementi scultorei della seduta sono stati realizzati in bronzo, con la tecnica di lavorazione a cera persa. È la prima volta che ti confronti con questo materiale. Com’è andata questa esperienza?
In questo progetto ho avuto la fortuna, anche grazie al vostro aiuto, di collaborare con molte persone aperte allo scambio e alla sperimentazione. Per le sculture in bronzo ho lavorato con un artigiano in una fonderia che si trova poco fuori Milano. Il processo di creazione è stato piuttosto fluido, non mi sono stati messi paletti e ho avuto la possibilità di dare forma alle mie idee. Spero sia l'inizio di un percorso di conoscenza di un materiale che potrò proseguire. Forse la cosa che apprezzo di più del bronzo è il fatto che la scultura finale sia il risultato diretto dalla mia manualità – perché è la forma in ceramica che viene tradotta in una materia molto più stabile e consistente. In questo momento non so dire fino a che punto il bronzo diventerà parte integrante del mio linguaggio, ma quello che mi piace molto nella seduta che ho creato per il MACTE è il contrasto tra le diverse materie, tra il bronzo e il cemento/argilla. Mi piace il modo in cui le parti riescono a bilanciarsi, hanno come un peso che si completa.
Bruno’s House è un progetto fatto di tante collaborazioni, non solo per la realizzazione dei bronzi. Anche per le sculture in ceramica hai lavorato con un artigiano, ungherese, specializzato in una particolare tecnica di smaltatura. E invece per il video hai dialogato con un musicista britannico. Come hai vissuto queste collaborazioni, quanto è stato importante per te guidare il lavoro oppure farti guidare? Volevo anche sapere più in generale come la collaborazione si contestualizza nella tua pratica artistica.
Per prima cosa, devi pensare che io non ho uno studio. Quando sono dentro un laboratorio, ad esempio se sto producendo delle ceramiche, cerco sempre delle persone con cui confrontarmi, anche se sto lavorando da solo. Mi interessa confrontarmi con artigiani e persone specializzate in determinate tecniche, che magari hanno sviluppato delle lavorazioni particolari, come nel caso del ceramista ungherese. Per me è molto prezioso cogliere questo tipo di input e aprire conversazioni. Invece non ho mai trovato attraente l’idea di lavorare isolato nello studio. La mia pratica artistica non è collaborativa in senso stretto, dal punto di vista della concezione delle opere, ma è una pratica che si nutre di collaborazioni, non solo nel processo di produzione, anche nel rapporto con i curatori ad esempio. Per mia esperienza quando si lavora in solitudine è molto facile cadere nell’errore di non riuscire più a leggere con un occhio distaccato quello che stai facendo. Per questo credo sia molto prezioso cercare una seconda visione – che sia dell’artigiano, del curatore o di qualche altra persona – mi serve per capire quello che vedono gli altri nel mio lavoro e bilanciare quello che vedo io.
Il processo di collaborazione con Robin Rimbaud-Scanner, il musicista che ha realizzato la colonna sonora del video di Bruno’s House, è stato un po’ diverso da quello con gli artigiani. Inizialmente gli ho mandato il video, lui mi ha chiesto dei parametri per elaborare la musica e da lì ha lavorato autonomamente. In questo caso possiamo dire che ho delegato in modo più netto una parte del lavoro. È stata la prima tra le collaborazioni che si sono susseguite nel percorso di realizzazione di Bruno’s House. È andata molto bene, c’è stata un’intesa, tanto che subito dopo l’ho coinvolto anche in un altro progetto. Devi sapere che ho conosciuto Robin diversi anni fa a Londra. In quel momento lui lavorava in una biblioteca dove io andavo spesso per noleggiare delle audio cassette di gruppi underground e sperimentali. Poi lui ha iniziato la sua carriera da musicista, che è progressivamente cresciuta; parallelamente io ho avviato la mia carriera da artista. Per un periodo ci siamo persi di vista, poi ci siamo ritrovati, dopo anni. Ognuno aveva continuato a seguire quello che faceva l’altro, anche se da lontano. Lui aveva appena visto la mia mostra alla Hayward Gallery di Londra, nel 2022, quando l’ho invitato a collaborare a Bruno’s House. Forse anche grazie a questo background comune e condiviso di ascolti musicali, Robin mi ha capito subito, ha immediatamente colto le atmosfere sonore che volevo creare e combinare alle immagini del video che ho montato. Chiaramente c'è stata una fase finale di editing guidata dalle mie indicazioni, ma è stato tutto molto spontaneo.
Nel 2024 si terrà una tua mostra personale al MACTE in cui verranno allestite negli spazi del museo le diverse opere di Bruno’s House. Volevo chiederti come ultima domanda se hai già delle idee o dei desideri per questo prossimo passo del progetto.
Per ora non vorrei rivelare molto, ma una cosa che sicuramente ho in mente riguarda l’utilizzo di materiale riciclabile e a basso impatto ambientale per il display. Vorrei che tutti i materiali dell’allestimento potessero essere riutilizzati in futuro dal museo. Trovo che molto spesso ci sia una forte contraddizione tra la frequenza con cui si trattano tematiche relative all’ecologia e alla crisi ambientale nei contenuti delle programmazioni artistiche e culturali, e il modo in cui si lavora – e questo è problematico. Mi piacerebbe poi che l’allestimento generasse dei contrasti con i materiali di cui sono fatte le mie sculture. Ad esempio vorrei affiancare alle smaltature delle ceramiche, che risultano estremamente preziose alla vista, dei materiali molto grezzi, non trattati e riciclabili.
Intervista realizzata da Marta Federici, assistente curatrice del MACTE
Foto scattate da Gianluca Di Ioia, tranne l'ultima di Nadia Vitone.
La scultura è permanente nel giardino del MACTE
ll progetto è vincitore dell'avviso pubblico PAC2021 - Piano per l’Arte Contemporanea promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.