
L’artista statunitense Stephanie Oursler si stabilisce a Roma nel novembre 1970, quando ha 32 anni. Della sua vita precedente a questa data si hanno poche notizie: studia pittura a Baltimora, design al Pratt Art Institute di New York e poi letteratura americana all’università George Washington; durante gli anni Sessanta partecipa al movimento per i diritti civili degli afroamericani e successivamente incontra il femminismo.
L’anno del suo arrivo in Italia, Oursler realizza il dipinto Senza Titolo, oggi conservato nella collezione del museo MACTE di Termoli. L’artista vince con quest’opera la XVI edizione del Premio d’arte contemporanea intitolato alla città molisana, nel 1971. Parteciperà nuovamente al Premio Termoli nel 1972 e poi, vincendo nuovamente, nel 1973.
Untitled documenta una iniziale fase di ricerca pittorica legata agli studi americani, ma influenzata anche dalla vicinanza al pittore Giulio Turcato, con cui Oursler collabora quale assistente di studio. Dall’opera emergono già molti tratti che caratterizzano la sua produzione più matura: il tema politico; la relazione immagine/parola; il prelievo e riuso di materiali dal flusso mediatico; ma anche una certa opacità che sembra proteggere un significato segreto dell’opera.
L’artista rielabora l’immagine della bandiera degli Stati Uniti, mescolando riferimenti alla guerra in Vietnam e ad altri eventi di cronaca americana. Si può ipotizzare una relazione tra quest’opera di Oursler e le bandiere dipinte da Jasper Johns, considerando che in questi anni – tra il 1972 e il 1974 – Oursler lavora anche sul tema dei bersagli (target). Ma un altro dato importante da segnalare è anche l’apertura nel novembre 1970, proprio mentre Oursler vola in Italia, della mostra People’s Flag Show presso la Judson Memorial Church di New York, che vede oltre 150 artisti in protesta contro la guerra in Vietnam e contro l’uso coercitivo delle leggi che punivano i gesti di oltraggio alla bandiera americana. È ragionevole supporre che Oursler fosse al corrente dell’evento.
I ritagli fotografici estrapolati da quotidiani e riviste ritraggono il mezzobusto del presidente Nixon, la testa del criminale Charles Manson, un soldato, e poi ancora un cappello da cowboy, un orologio, un’automobile: icone di una maschilità che si esprime attraverso il potere e la violenza. Tra di esse compare un singolo occhio femminile che piange.
Le strisce di testo non sono facilmente leggibili, perché le parole appaiono concatenate l’una all’altra. Frammenti di frasi e singoli vocaboli giustapponendosi tra di loro e con gli elementi visivi, lasciano emergere un discorso di senso discontinuo e a tratti enigmatico.
Il percorso artistico di Stephanie Oursler racconta una delle numerose traiettorie transnazionali che nutrono la produzione artistica italiana dal dopoguerra al presente. Gli studi degli ultimi vent’anni hanno inquadrato la sua figura nel contesto del discorso sul rapporto tra arte e femminismo in Italia, attenzionando in particolare la sua produzione nel biennio 1975/1976, con contributi di studiose quali Raffaella Perna e Giovanna Zapperi. Rimangono tuttavia poco o affatto trattate molte opere datate nella prima metà o verso la fine del lo stesso decennio e nei successivi anni Ottanta.
Questo testo rielabora una parte dell’intervento I Am a Ragpicker Who Gambles: the Role of Photography in the Work of Stephanie Oursler presentato da Marta Federici e Martina Caruso in occasione del convegno internazionale “Photography and Feminist Aesthetics. Italian and Transnational Perspectives” presso Alma Mater Studiorum - Università di Bologna (11-13 settembre 2025).