Salvatore Emblema ha lavorato per qualche anno negli Stati Uniti, accanto a Rothko: questo, e non lo nasconde, è il vero punto di partenza della sua ricerca. Per Rothko il quadro era una superficie che riceveva e restituiva luce: la restituiva, però, ad intensità di frequenza ed a lunghezze d’onda diverse. Più precisamente, riceveva la luce come realtà fisica e la restituiva come spazialità. Lo spazio è “cosa mentale” e la trasformazione dal materiale al mentale avveniva nel quadro, di cui dunque bisognava accertare la natura e, soprattutto la storia. Una delle esigenze fondamentali della pittura del nostro tempo (di Rothko e, parallelamente, di Barnett Newmann) è l’analisi del quadro come cosa reale che diventa mentale.
Emblema constata che la radiazione cromatica per cui, in Rothko, il colore forma attorno a sé una nebulosa spaziale, finisce per distruggere non soltanto la superficie, ma anche quella che si potrebbe chiamare la struttura di superfice del quadro. Poiché, eliminando la figurazione o la rappresentazione, si elimina l’allegoria, che un tempo era l’essenza della pittura, il passaggio dal quadro-proiezione al quadro-oggetto porta a operare direttamente, manualmente, sulla realtà fisica della tela e del telaio. Qual è la funzione della superficie del quadro nella trasformazione della luce fisica in spazio?
L’analisi porta, necessariamente, al tessuto, alla trama, al telaio che della trama determina non soltanto la dimensione e la tensione, ma anche l’estensione e la profondità di campo. Diradare la trama significa assottigliare la materia e predisporla alla spazialità, ma anche creare un reticolo di fili che impegnano la luce in una gamma molto estesa di vibrazioni. Perciò il lavoro sulla trama invade inevitabilmente anche il telaio, che ha una struttura tettonica, una sua profondità, una sua consistenza plastica.
La vibrazione, tuttavia, invade tutto: lo spazio è un’idea del limite come definizione d’infinito. Così il quadro “diradato” di Emblema tende a identificarsi con la parete, la stanza, il paesaggio, ad essere insomma un test che, a contatto con la realtà, reagisce nella misura in cui quella realtà è vissuta e pensata cioè naturalizzata e spazializzata. In un tempo d’inquiete ripulse, la ricerca di Emblema è una delle più coerenti e tenaci; una delle più intrinsecamente “concettuali” anche se non ha un riferimento diretto al movimento dei “concettuali”. Porta al limite estremo l’analisi della pittura anche come artigianato, quasi per dimostrare che, per salvarsi dal crollo generale dei valori, deve ritornare alla sua origine di modesto, ma profondamente conoscitivo lavoro manuale. In questi ultimi tempi nell’arte di Emblema c’è stata un’evoluzione, forse una svolta, che non è mutamento d’indirizzo, ma apertura di orizzonti: l’ha resa attuabile la conquista di una piena sicurezza delle possibilità non soltanto materico-cromatiche, ma anche plastico-spaziali della pittura. La fase di passaggio è il tentativo, che ha spesso portato a risultati quanto meno molto suggestivi, dell’inserimento del quadro nello spazio dell’architettura o, addirittura, nel paesaggio. Sia che si trattasse di osmosi, sia di assorbimento, l’esperimento riusciva con la precisione di una reazione chimica, ma, una volta compiuto, l’oggetto-quadro spariva. Diventava cortina, velo, diaframma, nube, atmosfera, variante ambientale, ma si perdeva in pittura quello che si guadagnava in spazialità. Nemmeno rinforzando il diaframma, trasformandolo in reticolo metallico cromaticamente forte, si giungeva ad una soluzione soddisfacente: anche Emblema ha cercato di liberarsi, con le reti della tela, dalle reti della pittura e, invece, ci si è ritrovato sempre più preso.
Arrivato, ragionando, alla conclusione che pittura non si può fare senza fare il quadro, ha ampliato e approfondito l’analisi del quadro, come oggetto pittorico in sè, ed è entrato nel vivo di uno dei problemi artistici più attuali, quello della relazione tra supporto e superficie. Al fondo della meccanica del suo lavoro di sfilatura della tela del quadro c’era ancora un artigianato tra i più semplici, quasi di pura sensibilità digitale; ma questo lavoro paziente era anche il suo modo di dipingere. Al problema inquietante della tela si aggiungeva quello del telaio: come prendendo coscienza del suo essere legittima componente del quadro, esso si fa sempre più solido ed anche, se si vuole, più rozzo e ingombrante, quasi prepotente, per far sentire la sua presenza e la sua necessità, dal momento che ogni superficie ha bisogno di un supporto. Naturalmente il telaio ha una sua struttura, una sua profondità, che fanno parte della spazialità generale; senza dire che è proprio il rozzo telaio a definire il rapporto tra la trasparenza delle tele sfilate e il piano amorfo ma ineliminabile della parete. Mi è sembrato di cogliere un segno involontariamente simbolico di questa funzionalità visiva del telaio nel fatto che Emblema firma abitualmente e vistosamente sulle sue assi ruvide, quasi per consacrare con un gesto rituale di autenticazione l’essenzialità artistica di quell’umile manufatto, da falegname di paese. La presenza non dissimulata e vigorosa del telaio quasi automaticamente da forza al supporto e gli consente di sostenere una tessitura coloristica, che sempre più si scopre come intrinsecamente plastica. In alcune delle opere più recenti e significative (i bellissimi turchini uniti) si giunge a ridurre l’immagine ad un complesso, quasi esoterico sistema di proporzioni: il piano e il retro-piano sono collegati dalla luce filtrata dalla ritmica sequenza delle sfilature parallele. Quasi una sezione aurea regola i rapporti di altezza, larghezza, profondità: ma davvero non c’è da sorprendersi che, partito da Rothko, Emblema sia in tutta coerenza arrivato così vicino a Reinhardt, davanti al cui nichilismo, tuttavia, si ferma e dissente. A salvarlo dal rifiuto radicale della pittura è ancora il suo umile, primitivo artigianato di tessitore.
Compaiono, nello spessore limitato del telaio, più strati trasparenti di tela colorata, che creano profondità, intrecciano e sovrappongono quasi invisibilmente le ortogonali dei fili della tela, la smaterializzano: di fatto, per quanto sembri una verità lapalissiana il solo spazio in cui un pittore, rimanendo pittore, possa vivere e fare pittura è quello, oggettivamente pittorico, che è compreso tra superficie e supporto, tela e telaio. È questo forse, nel lavoro recente di Emblema, il momento di massima pregnanza e tensione pittorica: il quadro-immagine cerca di riprendere il sopravvento dopo aver faticosamente attraversato la fase del quadro-oggetto. Ed ecco una delle sue ultime opere, che certamente segna l’inizio di un nuovo corso della ricerca: una superficie rosa, veramente dipinta, occupa una buona metà della tela nuda. È come un’aurora boreale, un’uscita a riveder le stelle, una faticata e meritata riconquista della materia brillante del colore dopo la lunga ma necessaria mortificazione della timida tinteggiatura della tela, che tutt’al più rendeva roride di luce le asprezze naturali del grossolano filato.
Come tutti i tessitori (anche quando tessono a rovescio, sfilando, diradando, distruggendo il tessuto) Emblema è paziente e metodico, non ha fretta. La sua lunga minuziosa analisi del fatto pittorico sfocia nel nuovo problema del rapporto superficie-colore, per colore intendendo ormai il dipinto. Ma la superficie è chiamata in causa dopo che le ricerche sul tema tela-telaio hanno portato alla definizione della sua spazialità esclusivamente pittorica. Ormai Emblema, dopo tante scontate esitazioni e angosce, può procedere sicuro: è certamente difficile muoversi in uno spazio puramente pittorico, ma una volta che ci si è entrati non se ne esce più.