LA PITTURA SI IMMAGINA (grazie all'Archivio Vasco Bendini)
Vasco Bendini
Quando dipingo mi abbandono interamente a ciò che vado man mano facendo. Pochi fatti basilari via via si succedono: la scelta della dimensione del supporto, della qualità della superficie, delle materie coloranti, degli impasti, degli strumenti, dei luoghi di stesura, della quantità di materia eccetera: il tutto con misura e fermento, valutando ogni aspetto nell’ordine e nella direzione dei miei impulsi vitali. In questo modo mi accorgo che il mio processo psichico si materializza, che la mia psiche vive nella materia, anzi con la materia. Il pensare, il sentire è il «fare»... In tal modo ogni parte dell’opera è un elemento reale che vive e cresce insieme alle altre parti - ogni forma si salva nell’atto del perdersi - e sono io, cioè la mia mente, a provocare e determinare il processo fisico. Con un unico scopo: raggiungere l'autocreatività... Il senso del mio operare può racchiudersi in questa semplice definizione: stabilità dell’instabile. La forma di un’immagine pittorica è sempre un diagramma di forze; ed è da esso che noi possiamo dedurre quali impulsi agiscano o abbiano agito sull’immagine o dentro di essa. Questa dinamica deve essere sempre interpretata dall’artista, il quale, cogliendo nell’organismo pittorico le mutue relazioni tra forze, individua, al tempo stesso, le leggi costanti della sua stessa psiche intesa come archetipo. Il mio azzeramento figurale degli anni Cinquanta non è nato infatti da uno sfogo distruttivo o polemico, ma da un’inevitabile e primaria ricerca delle condizioni basilari operative e degli aspetti grammaticali e sintattici del mio linguaggio.
Sono convinto che nella mente sia implicita la «cosa»: se il pittore segue l’istinto della sua mano, entra di fatto nella meccanica della materia. Però l’istinto della mano non è cieco procedere come per gli automatisti, ma è visto come abbandono cosciente alle «leggi» della propria energia psichica...
Gli artisti possiedono, nello specifico, particolari facoltà percettive, potendo esprimere le proprie sensazioni, i propri sentimenti e pensieri, attraverso valori cromatici, spaziali e immaginativi. È una disposizione ereditaria che manifesta qualità proprie innate, divenute poi caratteristiche della specie «artista». In questo senso rivendico l’autonomia del fare arte, rispetto ad altre attitudini umane. Essere e coltivarsi come artista non può destinarsi a chiunque, anche se con questa affermazione non intendo stabilire alcuna ideale gerarchia... È un processo tecnico mentale che si forma attraverso l’immaginazione: sono privo di ostacoli, di temi, sono immemore e solo. Le immagini si formano autonomamente, così come accade per i processi dell’esistenza biologica...
Tratto da un complesso e articolato scritto di Vasco Bendini, ridotto e selezionato per esigenze di spazio dall'Archivio Vasco Bendini, Roma. Il testo fu pubblicato nel 1986 nel catalogo "Venti disegni erotici, 1956_1984", Gianluigi Arcari editore, Mantova, 1986.
Autobiografia di Vasco Bendini (grazie all’Archivio Vasco Bendini)
Vasco Bendini
Il 1922 è il mio anno di nascita. Avevo diciassette anni quando è iniziata la II Guerra mondiale e ne avevo ventitre quando, il 6 agosto, un bombardiere americano sganciava la prima bomba atomica su Hiroshima.
Dal ’49 al ’55 abbiamo subito gli effetti negativi della “guerra fredda”: la pace era affidata a bombe nucleari trasportate da aerei speciali o assegnata a missili intercontinentali installati su sottomarini a propulsione nucleare. Sui giornali si leggeva che sarebbero stati sufficienti dieci minuti di attesa per il lancio della nuova bomba H e nel ’66 i tempi per la distruzione dell’umanità si ridussero a quei due minuti che divennero il titolo di una mia opera, realizzata il 24 marzo 1966.
Nel 1956 carri armati russi invasero l’Ungheria e nel ’68 la Cecoslovacchia. In particolare, nel 1968, mi colpì l’uscita, a Praga, del Manifesto delle Duemila Parole, voluto da numerosi intellettuali ansiosi di realizzare un vero processo di liberalizzazione a cui idealmente aderii, con la esecuzione di una mia opera intitolata appunto Duemila parole.
Avevo cinquantun anni, quando scoppiò il caso Allende che fu ammazzato, mentre difendeva con le armi in pugno la libertà del popolo cileno, sacrificata agli interessi degli U.S.A. e nacque nel 1973 Un giaciglio per Allende. E poi c’è stata la lunga e tragica guerra del Vietnam, seguita nel 1979 dall’aggressione sovietica all’Afghanistan, per non parlare del conflitto arabo- israeliano, dell’11 settembre 2001 e della guerra in Iraq. Non dimentico neanche l’ultima, drammatica e disumana risoluzione di erigere sul nostro pianeta oltre quindicimila chilometri di barriere di separazione tra i popoli.
Questi i fatti. Impossibile non smarrirsi. In questi frangenti nascono i miei neri: canti della notte, matrice di speranza. E sorgono i miei bianchi, naturali immagini di attesa.
Pubblicata in Ezio Raimondi, La stagione di un recensore, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Architettura, Monte Università Parma, 2010