Gli anni 1959-61 segnano per Piero Dorazio una fase di approfondimento delle possibilità spaziali della tela, del potenziale strutturale del colore e del rapporto tra spettatore e opera d’arte. Dorazio inizia in quel periodo la serie di opere generalmente definite “reticoli”, tra le sue opere più celebri ma che in realtà l’artista preferiva definire “trame luminose”.
Dorazio inizia a lavorare alle trame intorno al 1959 quando la densa materia delle opere dell’anno precedente inizia a diradarsi, lasciando affiorare gli strati inferiori della sedimentazione. La frattura che intacca la materia apre alle infinite possibilità della trama che diverrà sempre meno densa e più regolare, fino quasi a ricordare la struttura invisibile della materia, la geometria nascosta nella roccia o nella formula chimica.
Dipinte a mano libera, senza l’aiuto di righelli né scotch, le trame rappresentano il passaggio dell’arte di Dorazio dagli anni di formazione europei e americani verso uno stile completamente personale e originale che diverrà in qualche modo il suo “marchio di fabbrica”. A mano a mano che sviluppa la sua idea di trama, e che esse assumono una gamma sorprendente di variazioni quasi a seguire un invisibile algoritmo che ne regola le combinazioni di colore e i rapporti, Dorazio approfondisce il suo interesse nei meccanismi della percezione che esporrà agli studenti dei suoi corsi alla Penn University a partire dai primi anni sessanta. Il lavoro sulle trame raggiunge la sua massima concentrazione nel 1960 con il grande successo della sala personale di Dorazio alla Biennale di Venezia. Qui le tele non sono più unità singole ma collaborano alla creazione di un’opera “ambientale” che, con le opere allestite a distanza minima l’una dall’altra, danno vita a un continuum in cui lo spettatore è immerso.