Questo disco funziona illuminandolo con lampade a luce fredda quali, neon fluorescenti, vapori di mercurio, vapori di sodio.
Esposta in occasione di:
Art is Easy 2019-2020
Ersilia, 2024
Il Gruppo MID – Movimento Immagine Dimensione, composto da Antonio Barrese, Alfonso Grassi, Gianfranco Laminarca, Alberto Marangoni, formatosi a Milano nel 1964 e presentatosi al pubblico nel 1965, si inserisce all’interno della storia dell’arte programmata italiana quando questa aveva, in qualche modo, già esaurito la sua fase propulsiva e rivoluzionaria, cioè quando i gruppi appartenenti alle Nuove Tendenze entrano in crisi.
L’indagine rigorosa sui portati della tecnica, sottoposta a continua verifica, da cui estrarre l’espressività e la significazione, consente al gruppo di riguardare quel geniale laboratorio che è stata l’arte programmata in maniera originale, come testimoniato ad esempio dall’applicazione della programmazione anche alla fotografia e alla pellicola, dalla sperimentazione della multivisione e della sinestesia acustico-visiva. La cibernetica, la fenomenologia, la teoria dell’informazione applicata all’estetica, che in quegli anni aprono nuovi orizzonti di senso, sono gli ambiti di pensiero frequentati dai componenti del MID, che scrivono in una delle prime dichiarazioni: Si tratta dunque di strutturare le informazioni […] con lo stesso criterio usato per i model li cibernetici.
La cibernetica, la scienza che studia i principi di funzionamento di macchine e organismi viventi, forniva loro il paradigma della elaborazione delle informazioni da parte dei sistemi complessi, dei rapporti che connettono le informazioni dal centro alla periferia del sistema. Perciò la ricerca del MID, fin dagli inizi, si basa su due pratiche fondamentali e interrelate: il metodo e la sperimentazione. Metodo come procedimento e sperimentazione come verifica costante del laboratorio dei segni. Il legame con la scienza che, declinato in modi differenti, caratterizza tutta l’arte programmata, nel MID è fondativo: arte-ricerca-scienza si presentano come ambiti interconnessi e inscindibili l’uno dall’altro. Proprio nel catalogo di “Nova Tendencija 3”, del 1965, che vede la prima partecipazione internazionale del MID, Giulio Carlo Argan aveva scritto che nell’arte gestaltica e programmata il valore si dichiara nel percorso metodologico della ricerca: queste correnti riconoscono nella ricerca scientifica la ricerca guida e attuano in essa il necessario raccordo tra l’arte e il sapere in generale, ma la loro finalità è diversa […].
V’è tuttavia una premessa comune: che il valore, non reperibile nel dato, né nel risultato, si dichiari invece nel percorso metodologico della ricerca. Il risultato può anche non darsi o venir superato nel momento stesso in cui lo si ritiene raggiunto; ma il processo della ricerca si qualifica, in sé, come modello di pensiero, di operazione o, in una parola, di comportamento.
Nella ricerca del MID il procedimento artistico coincide con quello scientifico e la teoria diventa centrale. Una teoria dell’arte, che dà vita a un progetto che si articola nella sperimentazione della tecnica, che viene di volta in volta sottoposta a verifica. Questa connotazione rigorosamente scientifica è il tratto distintivo del gruppo. Della fenomenologia dell’arte programmata il MID rifiuta il fattore caso, presente ad esempio in alcune opere del Gruppo T e teorizzato da Umberto Eco nel testo di presentazione della mostra “Arte programmata”, dove l’autore scrive: [...] Non sarà dunque impossibile programmare, con la lineare purezza di un programma matematico, campi di accadimenti nei quali possano verificarsi dei processi casuali. Avremo così una singolare dialettica tra caso e programma, tra matematica e azzardo, tra concezione pianificata e libera accettazione di quel che avverrà purtuttavia secondo precise linee formative predisposte, che non negano la spontaneità, ma le pongono degli argini e delle direzioni possibili. Possiamo così allora par lare di arte programmata. Di fatto l’investigazione del MID è caratterizzata da una sorta di iper programmazione che esclude radicalmente l’intervento del caso. L’intento dichiarato è quello di promuovere un’indagine in grado di comunicare all’osservatore informazioni visive delle quali si possa prevedere il risultato di ricezione estetica, secondo i principi dell’estetica sperimentale, tesa a porre le basi di un’estetica oggettiva, misurabile, generata dall’apporto di discipline quali la teoria gestaltica, la fenomenologia, la teoria dell’informazione, e che pone come centrale il rapporto operatore-opera-fruitore.
Paolo Bonaiuto, tra coloro che in quegli anni in Italia indagano l’estetica sperimentale, sul numero de “Il Verri” dedicato all’arte programmata, scrive: […] uno degli aspetti più interessanti della nuova problematica portata avanti è stato quello del desiderio e del progetto di impadronirsi […] di leggi che regolano il rapporto operatore opera-fruitore, con l’intenzione di porre così basi più sta bili e concrete per il tentativo di strutturare in maniera funzionalmente-esteticamente più valida aree quanto più possibili vaste del vissuto, del campo fenomenico, e in ultima analisi del reale, nell’ambito della società industriale, partendo dallo studio e dall’utilizzazione dei suoi stessi metodi. Dal progetto iniziale di elaborare un avvenimento e tra sformarlo in fenomeno, cioè in avvenimento percepibile, si snoda il procedimento formale adottato dal MID: Scomporre sistematicamente il fenomeno da comunicare in tutti i diversi livelli che lo formano (fisico, fisiologico, psicologico, semantico, eccetera) ed analizzare i diversi mutamenti o possibilità di variabilità che il fenomeno ha nell’ambito di ogni livello o la funzione che ogni singolo livello ha nel contesto fenomenico. Servendosi poi di tutti gli altri momenti della ricerca, procedere alla quantificazione e all’analisi metrologica dei risultati ottenuti per poter usare le particelle minime come unità di informazione, per mezzo delle quali elaborare ulteriori strutture comunicative di cui poter prevedere i risultati, scrivono gli artisti. L’estetica sperimentale, che misura il gradimento delle comunicazioni prodotte, legato al variare della complessità dei fenomeni, è alla base della ricerca del Gruppo. L’analisi dei rapporti tra semplicità/complessità figurale attraversa infatti molta parte della produzione del MID, dagli Oggetti alle Strutture alle Immagini Sintetiche,alle Opere schermiche. L’osservatore si trova di fronte a un’opera le cui qualità formali si modificano attraverso la trasformazione dei pattern visivi, che da semplici diventano sempre più complessi; attraverso il suo intervento manipolatorio agisce sul livello di complessità spazio-temporale della situazione percettiva data, che muta a seconda della segmentazione delle immagini, della loro velocità e direzione di movimento, della tonalità cromatica eccetera. La lettura dell’insieme, attraverso la decostruzione e ricostruzione delle sue componenti figurali, gli consente di prendere coscienza delle strutture della visione e, per questa via, si attiva in lui un processo conoscitivo più ampio.
Le Opere schermiche, ad esempio, nel testimoniare quel principio di iper programmazione di cui si è detto, bene esemplificano la messa in opera della espressività direttamente derivata dalla tecnica, che con questa coincide: i modi di utilizzo della luce, l’intervento diretto sulla pelli cola, l’oggettualità della ripresa. Si inseriscono sulla scia della grande sperimentazione sul mezzo filmico prodotta in primis dalle avanguardie storiche, da Hans Richter a Luigi Veronesi a Bruno Munari, fino alle realizzazioni più tarde di Stan Brackage o di Nor man McLaren. Ma il MID rifiuta qualsiasi apporto artigianale, presente ancora nel procedimento usato da McLaren che disegna va a mano sulla pellicola, per privilegiare i portati più moderni della tecnica. Inizialmente le Opere schermiche del MID erano semplicemente la documentazione dei lavori cinetici; ben presto però si sono sviluppate in una ricerca autonoma riguardante la dimensione temporale dei gradienti di semplicità/complessità, la leggibilità di scritte animate, la strutturazione percettiva, le soglie di allucinazione. In effetti queste opere appaiono come un’estensione delle strutture, delle fotografie, di alcuni oggetti. I film indagano il rapporto tra l’immagine, la variazione e la durata, verificano alcuni fenomeni riguardanti la complessità ottimale delle immagini (in senso sia statico sia dinamico e in relazione al tempo di emissione), la soglia di saturazione percettiva di forme con struttura e complessità note, i modi e i tempi ottimali di lettura, gli studi di alcuni fenomeni percettivi complessi. Con Paolo Bonaiuto, docente di Psicologia all’università di Bologna, gli artisti avviarono una ricerca di estetica sperimentale. Realizzarono un numero considerevole di spezzoni di film che presentavano figure con differenti gradienti di complessità (gradienti dati dalla numerosità di sovrapposizioni dei cerchi). I vari spezzoni vennero sottoposti a un certo numero di soggetti e, statisticamente, se ne trassero le preferenze riguardo ai parametri complessità e durata. Ogni nuovo lavoro è generato, dunque, dalle possibilità che il medium utilizzato poteva offrire, da quella espressività della tecnica di cui si è fatto cenno. Anche la produzione delle fotografie si situa in questo percorso. Una fotografia il cui esito finale era determinato dall’algoritmo di programmazione e non da scelte arbitrarie; non da tecniche occasionali e fungibili, ma dal vuoto che è la tecnica inespressa. La definizione di Immagini sintetiche nega qualsiasi riferimento alla fotografia di tipo analogico e testimonia un’anticipazione sul futuro, su quell’universo sintetico, digitale che di lì a qualche decennio avrebbe definitiva mente modificato lo statuto della fotografia. Nella fase iniziale della ricerca le foto erano realizzate riprendendo direttamente gli oggetti cinetici, illuminati da uno stroboscopio elettronico; in seguito mediante esposizioni multiple (cioè più scatti sullo stesso fotogramma) di spostamenti lineari o rotatori. Utilizzate anche per le ricerche di estetica sperimentale, misuravano il gradiente estetico relativamente al livello di semplicità/complessità figurale. Le immagini finali, infatti, generate dalla modificazione dei pattern originari (cerchi su reticoli, circonferenze, cerchi e quadrati, aree circolari), contengono un progressivo aumento di complessità. Un osservatore attento, in grado di decifrare le strutture visive, sarà in grado di individuare l’affinità tra il risultato finale e i pattern iniziali. Su “Lineagrafica” del gennaio 1968 il MID scrive che la fotografia, per lo meno a certi livelli, nasce da un lavoro di progettazione, perché la si può considerare una specializzazione del design, e come il design deriva da un metodo operativo oggettivo, scientifico, strutturato. In ultima analisi, ma restando necessariamente all'epidermide del problema, anche la fotografia, facendo parte del visual design o comunicazione visiva, tende a essere un linguaggio visuale oggettivo e perciò basato su criteri e dati preesistenti all’elaborazione della stessa.
Nella sua complessa produzione, il MID si confronta con lo spazio, attraverso la realizzazione sia delle Strutture sia di alcuni Ambienti interattivi”. Le Strutture, i primi lavori realizzati, sono grandi opere cinetiche con impianti di illuminazione stroboscopica che, relativamente alle possibilità logistiche che non sempre lo consentivano, potevano essere manipolati dai visitatori tramite interruttori o potenziometri che modificavano la frequenza di pulsazione della luce e quindi la composizione delle immagini. Si tratta di opere dalla vocazione ambientale, che si impongono per la loro grandezza nello spazio che le ospita e che di fatto esse stesse riqualificano mediante il rapporto buio e luce e i diversi effetti prodotti; macchine gigantesche destavano meraviglia per la dimensione e gli effetti; la variazione di immagine in alcuni casi era programmata automaticamente, in altri era modificabile per mezzo di interruttori che ne regolavano la frequenza luminosa. Negli anni sessanta molti artisti, in ambiti di ricerca differenti, producono lavori di carattere ambientale, opere cioè che coincidono con lo spazio che le contiene.
All’interno del concetto d’abitabilità, comune a tutte le opere che si fanno ambiente, gli ambienti dell’arte programmata, interattivi, portano alle estreme conseguenze il principio dell’opera aperta, la categoria della formatività, quella della transazione psicologica. Italo Mussa sosteneva che nell’arte programmata l'ambiente fosse il logico sviluppo della ricerca intrapresa con gli oggetti. Nel suo libro sulla storia dei gruppi europei, scrive: [...] Una tappa significativa delle ricerche cinetiche e visuali è rappresentata dall’ambiente (o environment). Con esso ha inizio una fase nuova della metodologia di gruppo (e non), che si quantifica ormai sempre più scientificamente, tecnologicamente e sperimentalmente. Ciò che viene sottoposto ad analisi precise sono i processi formativi e di memorizzazione delle facoltà percettive. L’ambiente è uno spazio visuale (o ‘campo’) perfettamente progettato in cui lo spettatore, estraniato dal mondo ‘esterno’, si trova coinvolto in sé stesso e le sue facoltà psico-percettive vengono sottoposte ad esercizi aventi sempre funzioni estetiche. Costruito con stupefacente artificiosità, l'ambiente ‘contiene’ oggettivazioni spaziali essenzialmente proiettive (complesse immaterialità di ordine cine-visuale quantificate) ottenute con luminosità in movimento o fisse, illusionismi ottici-programmati. Fenomeni che ne motivano la trasformazione e modificazione spazio. Gli ambienti programmati creano uno spazio attivo, mobile, provvisorio, legato al comportamento del fruitore, che vive a sua volta un’esperienza polisensoriale che investe tutto il suo corpo.
Nel 1966 il MID realizza il primo ambiente con sinestesia visivo-acustica, che coniuga cioè la luce stroboscopica e il suono. L’Ambiente stroboscopico programmato e sonorizzato, presentato presso la Sala Espressioni Ideal Standard di Milano, è realizzato in collaborazione con lo Studio di Fonologia Musicale di Firenze, diretto da Pietro Grossi. Lo spazio è animato da tre batterie di illuminatori stroboscopici, ciascuno composto da tre fari tricromatici a pulsazioni variabili. Le fonti di luce proiettano dal soffitto sul pavimento della sala tre campi cromatici che mutano secondo la programmazione, sui quali interferiscono i visitatori, secondo gli spostamenti effettuati lungo i tre campi luminosi. Anche il suono è dovuto alla programmazione di due strutture sonore, ottenute da dieci serie geometriche di frequenze, emesse da quattro canali diversi in contemporanea o a intervalli. L’opera si identifica con la percezione dello spazio archi tettonico che la definisce: gli osservatori si muovono in un vuoto animato da loro stessi e da due elementi immateriali quali la luce colorata e il suono. Frapponendosi ai fasci luminosi e intermittenti che escono dal soffitto, si vedono sdoppiati, triplicati, moltiplicati, colorati e, ospitando sui propri corpi porzioni di luce, portano a compi mento il progetto. In questa dinamica percettiva polisensoriale chi si muove nello spazio e ne modifica il campo fenomenico è con dotto a prestare attenzione alla propria attività percettiva e motoria: l’intento del lavoro, come sempre, è anche quello di generare un grado significativo di consapevolezza nel fruitore. Perciò la teoria dell’informazione estetica è il presupposto basilare da cui parte la ricerca, tesa a fornire indicazioni all’artista per una operatività più consapevole e in grado di mettere in evidenza il livello di complessità verso cui si dirige la preferenza dei partecipanti. Nel suo testo su “Ideal Standard Rivista” Paolo Bonaiuto situa storicamente questo lavoro all’interno di una linea sperimentale che va da Moholy-Nagy al coevo Gruppo T. Mette in risalto altresì come questo Ambiente, nello specifico, segni nella produzione del gruppo un ulteriore salto di qualità: rispetto all’intervento manipolatorio sulla situazione stimolante, che caratterizzava gli Oggetti e le Strutture, qui l’osservatore interferisce con il programma grazie alla prospettiva di ricerca a schema aperto. Scrive: Gradatamente l’operatività si muove dalla semplice espressività della tensione di ricerca, che si limita, produttivamente, alla ripetizione di variazioni sistematiche su schemi grafici, alla vera e propria prospettiva di ricerca a schema aperto (e come tale non semplicisticamente programmata) pur sempre concretata attraverso visualizzazioni e sonorizzazioni che tentano di raggiungere, concomitatamente ed interdipendentemente, il pregio della proposta estetica, capace di comunicare e di diffondere dati originali ed essenziali. Infine gli Oggetti, che sono la parte del lavoro del MID più esposta nelle mostre anche per motivi logistici, restituiscono, nella loro varietà, le tappe della sperimentazione, le soluzioni via via trovate per produrre al meglio gli effetti voluti. Generatori di strutture formali in movimento, alcuni di loro sono concepiti per essere tenuti tra le mani, altri invitano al gioco, altri ancora sono confezionati come oggetti da tavolo, oggetti quotidiani. Inoltre la loro qualità interattiva, sia di tipo manuale sia meccanica, li rende ulteriormente accessibili, fruibili.
Tratto dal volume Alle origini della multemedialità – Dall'arte programmata all'arte interattiva di Antonio Barrese e Alberto Marangoni