Nel quadro che si staglia sulla parete davanti a me una scala bianca si inerpica in rilievo sino a metà campo; in bilico sulla scala una ruota bianca, che genera corpicini (bianchi) di neonati librati in picchiata su un campo bianco molto vasto e, come aerei, angeli o innocenti (incoscienti) lanciati da una finestra da madre snaturata ed etilista, precipitano (ma soavemente) a terra - o forse non precipitano perché la terra e il cielo (ma è cielo?) sono della stessa imprecisione bianca, e forse volano, in teoria potrebbero essere persino felici – oppure né felici né infelici perché non sono bambini, ma bambolini, cose dunque, oggetti in un spazio, relazioni tra punti.
Dunque (e me ne convince anche la lettura a ruota – libera che ne dà Emilio Picco) [1] le superfici di Fomez sono delle macchine per attivare l’immaginazione, e ciascuno si legge nei suoi quadri la sua storia. Di costrittivo (come si deve) Fomez ci mette un ritmo, un gusto, una eleganza in cui tutte le storie possibili si conchiudono. Detto questo dovrei essere tranquillo. Non commetterò il peccato demagogico di pensare che l’arte deve fornirci in ogni momento e in ogni occasione un giudizio conclusivo sul mondo: deve addestrarci permanentemente a rivedere ogni possibile giudizio sul mondo, e in più deve darci (ho bestemmiato) una certa gioia. Il fatto che il circuito mercantile delle arti figurative riservi questa gioia a una classe o comunque a pochi eletti, dovrebbe inserirsi come elemento di perturbazione ideologica a posteriori: l’oggetto è quello e potrebbe vivere con la stessa grazia e la stessa felicità anche in una società che lo ponesse a disposizione di tutti. E tuttavia, nel guardarlo questo quadro (tutti i quadri) di Fomez, mi coglie un sospetto – un’ombra di falsa coscienza. Né vorrei mettermi su un pulpito a fare il processo all’artista vittima di tutte le integrazioni. La falsa coscienza è tanto mia (di me che parlo dell’arte) che di chi la fa. Il processo che cerco di intentare non è a Fomez, è a una serie di contraddizioni permanenti del fare artistico, oggi – certo - e forse sempre.
Quello a cui penso (l’ho già detto) non è il destino costante dell’opera d’arte, di nascere su precisa committenza, parlando un linguaggio rivolto a un gruppo sociale ben preciso, per poi passare attraverso un circuito di domanda e offerta e venir valutata (ormai feticizzata) più per il suo valore di scambio commerciale che per il suo possibile valore di uso estetico.
Certo questo problema è vivo e importante: ma potrebbe facilmente essere accantonato con due tipi di risposte. Una è che ci sono coloro che sanno elaborare happenings politici all’angolo della strada ed altri che sanno o vogliono solo puntigliosamente perseguire un loro progetto di costruzione di oggetti stimolatori, rimandandone a molto tempo dopo (al giudizio della storia se volete) la verifica di utilità sociale. L’altro è che un artista può giocare su molti registri, e il fare oggetti inutili (come è sempre stata inutile ogni opera di pittura o di scultura) può costituire la palestra nella quale elabora nuove possibilità di linguaggio – e poi starà a lui decidere se e come queste possibilità si dovranno esplicare anche in altre sedi, in più diretto comunicativo (e su temi più immediati) con coloro che l’artista sceglierà come propri interlocutori.
[1]Eco si riferisce al testo di E. Picco. In “Antonio Fomez” Edizioni Pareti – Milano – 1971.
Estratto dal testo di Umberto Eco Riflessioni su Fomez del 1971 pubblicato nella monografia "A. Fomez Il percorso di un artista pop", Milano 2016