Radici 1983–1984
Olio su tela e specchi su tavola
124 × 85 cm

Michele Cossyro began painting fascinated by the light and colour of the sky and sea of his island, Pantelleria, as well as the seafood and the beautiful iridescent shells. Then that light, pushed by the light blue and intense blue towards the horizon, sealed itself in a clear line the brighter as the colour gets deeper. This gave rise to the “mirroring surfaces”, the right-angled images, the painting that reflects itself, the myth of Narcissus.

Between these phases there are the long tablets with hooks and the wreck of a boat, memories of the sea, a boat-sculpture, an anticipation of the sculptures of refined technique, which enrich Cossyro's artistic personality. Then the colour explodes, shatters, scatters over the surface of the canvas as if about to disperse or recompose, while in the corner of the frame the crumpled image seems to be there to be consulted to reconstitute the painting.

In the works of the last two or three years, Cossyro has tried out a new support for colour made up of deep blue and darker blue but also of intense reds: a wooden support folded into the shape of bellows, some of which are large, so that the image changes according to the movement of the visitor who passes in front of the work and suddenly sees the picture dissolve because along the inner face of what I have called the bellows there are mirrors that reproduce the light in another, completely abstract way, totally destroying the image.

Cossyro's experience is new, interesting and, current even though his research dates back to 1970. From that year to the present day, the artist has developed his thinking, broadening his horizon but always with great consistency: the image, as in previous years, is broken up into segments, but now the vertical rods that fan out around a pivot and are the same height as the painting repeat the image more precisely and, if extended, would recompose the painting exactly. The colours are vivid, predominantly the artist's favourites: light blues, blues, flame-reds: everything takes place within a well-programmed system of correspondences between the painting and the fragmented image.

The light is always the prevailing interest and the luminous casts and rims cross the image as in the past, but with a greater intensity of encounters and interferences. It is always the game of reflection, of mirroring the image (as we have seen, the artist often places real mirrors on the reverse of the segments). An original research that is among the most worthy of attention in the panorama of contemporary art.

Text by Palma Bucarelli for the catalogue of the solo exhibition L'angolo di Tanit, March 1985.

Photo: Gianluca Di Ioia
by Emilio Villa

Della pittura lineare, per lineas illatas, che formano la parte più antica del grande « tema » che è lo spazio, dobbiamo ri­conoscere l’operazione stilistica e linguistica di Cossyro: e defi­nirla di tendenza astrattiva e, insieme, estrattiva, cioè trainante, definitoria propria della occasione meglio temperata: per lineas genitas ingenitas, a ricerca o inferenza delle radici del diafano e dell’opaco, a opera della immaginazione lineata, che è in parte attestato e in parte atteggiamento della vivente ordinanza, del tratto - tragitto, della deriva simmetrica, in propensione di « anti-spazio ». Che nella invenzione di Cossyro presenta l’assedio totale di orizzonte - come - vertice: la verticale ricreata in fase di spigolo e di diramazione, di ramo e di lama, in metafora saliente dell’ordito - trama, dell’instancabile trasparenza della specularità iterata, moltiplicata, articolata in memorie di tra­sparenze e di inflessi-riflessi, di fusione nel limitrofo, come l’onda « toujours recomencée », come somma di rimandi, di apertura, di vigilanza sulle leggi del « verticale » in emblemate firmo, organico lineato, e sui principi coordinati, non da repertorio geometrizzante, ma da serena e severa cognizione: come per rag­giungere, nella fisicità coniugata del tono, la organicità e il grado di deriva ritmica, della quota di trasparenza, contro gli ingranaggi delle « strutture » e delle « composizioni ».

Nella « fisica armonia » onduloide o rettilinea, di Cossyro corre l’evidenza misurata, numerata, annoverata, in aperti triangoli, della evidenza misu­rata, della rincorsa in ritmo innocente, trasformata in « elemento » (desiderio glaciale di parete estatica); della evidenza in atto di campo d’ombra. E tutto per abbattere, deiettandola, la cifra (o icone, o feticcio) del labirinto (geometrico o psicologico); e sostituirla, a confronto, come una variegata urna posta, elevata scenicamente, che sigilla spazio come divario, come alveo, come dissolvenza ritmata, come scalarità, come contiguità e lampeggio di parametri, (a paraste successive); o come triangolo che fonda una possibilità di (com)prendere l’organismo puro, chiuso, ta­gliente: cioè l’angolo che è traccia permanente, e tragitto, sotto la nube del cromatico (paesistico anche, o più esattamente atmo­sferico). Per cui si instaura, in manufatti prestigioso, il disegno-designo (disegnare-designare) dell’amalgama numerato di grande occasione della linea insorta, dall’inevitabile, ineliminabile, ina­lienabile espediente graduale: dove chi vuole può inserire nello schema un senso più generale di forma del mondo (cosmomorfia) e perfino un lieve sospetto di cosmologia acquattata e idea­lizzante. Per cui si intoni l’intento di riattare circostanze, eve­nienze, essenze e mozioni a un unico istantaneo simultaneo getto del colore imperversante: come alternante, e non meccanico nu­cleo o punto di accesso conteso al « visibile » e al « divisibile » (come dire: « quelque part / quelque art » e « quelque partie / quelque vie ») che invano ricerchiamo nella accecante misura della materia umorale; il cifraggio sensitivo del segnale perma­nente in materialità dissolvente, dissolvenza-embrione di una prospettiva trasfinita: il tempo, il tempestivo, predisposto in fasce verticali, in bande precipiti, coniugate a spigolo, a trigono, cristallizzato, immoto, come la semina, spargimento, di « tem­pi » originali, originari, proprio in gradus, in tagli dell’estremo improvviso di serie contemplativa; in timida, titubante, avventata fiction (immagine, emblema, sigillo appunto, stemma, stigmata di concezione psicotropica, di « delices ravissantes en géométrie »: reminiscenza, o apertura, di « tema-tempo » allo stato puro, sve­lato contro la « distesa » occupata dai suoi canali angolati e vertebrati, dalla sua assorta cerniera o raggrumo di metafora-enigma, come icone non labile, come moto di coscienza dirimente dentro la grande orbita della « percezione » costante, mobilitata alla sua intima incessante dislocazione e dilatazione, e qui, con­tro ogni decaduto e decantato « prospetticismo »; alla sua ite­razione semplice, ma anche ambigua, ricercando l’ossatura, la « frastica », si dice, dell’involucro nudo, della cosa non separata dalla sua origine. Così ritroviamo in Cossyro il « segnale » di eminente araldica spazio-temporale; come processo mai proble­matico, ma emblematico, della immaginaria inventiva, che è li­mite e passaggio di sensibilità, e vettore di (e)vocazione scenica, di un parco oscillante, a lettura contratta e serrata, come inquieta dimora (vacante in senso di contemplazione incessantemente as­sorta), quasi fosse da inalbera, per armoniosa ma secca eserci­tazione, la inchiesta di un étymon di possibilità riconosciute dal « demone geometrico »: custode dell’essenziale differente-indif­ferente; là dove l’invasato operante è portato, non sappiamo bene come, a scuotere con risonanze non più geometriche la superficie (la extensio) senza frammentarla; e soprattutto, e tanto sovente, aggredita da abbellimenti e nozioni migranti (il vizio del colore non lo si perde mai, se uno ce l’ha; e comunque solo sotto uno sforzo disumano).

Con l’espediente operativo, in sè meccanico, dell’affronto, banda contro banda, striscia contro striscia, parete contro parete, specchio contro specchio, Cossyro drammatizza il medesimo contro l’individuazione generata, il medesimo contro il medesimo;l’asse « in/irmus » contro l’asse di flessibilità libera e ingenerata (una maniera di allucinazione che nasce e scompare), continuativa: lo spazio-deserto come di­sponibile alla semplicità del gioco freddo, e alla sezione di cieca, misteriosa, innumerabile e non avvitabile immagine che ci for­miamo addosso, di pronta versione del micrótopo che la pit­tura denuncia come stesura orfica: cioè spazio-maggiore come colpo e colpo di memoria, come tentativo di un rito affascinante, come l’equilibrio casuale ma non confuso, delle linearità, del­l’affilato combaciare delle identità geometriche, quali espansività di creazione: sempre lo sforzo dello spazio (non onirico, anti-oni­rico) di sfuggire alla propria ineluttabile immanenza, alla propria primordiale infanzia: è il passo che trascorre e che distanzia orizzonte da mythos.

« Spazio »vero, o ipotizzato da inconscia epifania-prigionia, tracce e ombre di landscaping, memorie da sug­gestione, da impressione del primitivo logos (il battito del tam­buro nella geometria dei continenti), da suggestione, da impres­sioni, luoghi di confine dell’oscura esistenza; il moltiplicarsi e come riverberarsi di una fisionomica dello spazio sospeso alle sue stigmate (i suoi « segnali »), ai suoi annodi coscienziali, nidi di visione: velo e incarnazione in atmosfera imbandita, pura peripezia, perimetro del breve assurdo, e mutamento dell’esistere nell’inoltro; per assunzione calligrafica e topologica interferenza, figlie della materia comune, astrazione e silenzio del livello ideale, proprio, diciamo, come contropeso al «labirinto »: ma liberi, scatenati, rapinosi effetti riflettenti in semplice dirittura, nella disposizione di originari edetikói arthmói, « numeri che si vedono », « numeri con cui si vede », rigorosi, attivi.

Testo di Emilio Villa per il catalogo della mostra personale "L’angolo di Tanit", Marzo 1985.