Della pittura lineare, per lineas illatas, che formano la parte più antica del grande « tema » che è lo spazio, dobbiamo riconoscere l’operazione stilistica e linguistica di Cossyro: e definirla di tendenza astrattiva e, insieme, estrattiva, cioè trainante, definitoria propria della occasione meglio temperata: per lineas genitas ingenitas, a ricerca o inferenza delle radici del diafano e dell’opaco, a opera della immaginazione lineata, che è in parte attestato e in parte atteggiamento della vivente ordinanza, del tratto - tragitto, della deriva simmetrica, in propensione di « anti-spazio ». Che nella invenzione di Cossyro presenta l’assedio totale di orizzonte - come - vertice: la verticale ricreata in fase di spigolo e di diramazione, di ramo e di lama, in metafora saliente dell’ordito - trama, dell’instancabile trasparenza della specularità iterata, moltiplicata, articolata in memorie di trasparenze e di inflessi-riflessi, di fusione nel limitrofo, come l’onda « toujours recomencée », come somma di rimandi, di apertura, di vigilanza sulle leggi del « verticale » in emblemate firmo, organico lineato, e sui principi coordinati, non da repertorio geometrizzante, ma da serena e severa cognizione: come per raggiungere, nella fisicità coniugata del tono, la organicità e il grado di deriva ritmica, della quota di trasparenza, contro gli ingranaggi delle « strutture » e delle « composizioni ».
Nella « fisica armonia » onduloide o rettilinea, di Cossyro corre l’evidenza misurata, numerata, annoverata, in aperti triangoli, della evidenza misurata, della rincorsa in ritmo innocente, trasformata in « elemento » (desiderio glaciale di parete estatica); della evidenza in atto di campo d’ombra. E tutto per abbattere, deiettandola, la cifra (o icone, o feticcio) del labirinto (geometrico o psicologico); e sostituirla, a confronto, come una variegata urna posta, elevata scenicamente, che sigilla spazio come divario, come alveo, come dissolvenza ritmata, come scalarità, come contiguità e lampeggio di parametri, (a paraste successive); o come triangolo che fonda una possibilità di (com)prendere l’organismo puro, chiuso, tagliente: cioè l’angolo che è traccia permanente, e tragitto, sotto la nube del cromatico (paesistico anche, o più esattamente atmosferico). Per cui si instaura, in manufatti prestigioso, il disegno-designo (disegnare-designare) dell’amalgama numerato di grande occasione della linea insorta, dall’inevitabile, ineliminabile, inalienabile espediente graduale: dove chi vuole può inserire nello schema un senso più generale di forma del mondo (cosmomorfia) e perfino un lieve sospetto di cosmologia acquattata e idealizzante. Per cui si intoni l’intento di riattare circostanze, evenienze, essenze e mozioni a un unico istantaneo simultaneo getto del colore imperversante: come alternante, e non meccanico nucleo o punto di accesso conteso al « visibile » e al « divisibile » (come dire: « quelque part / quelque art » e « quelque partie / quelque vie ») che invano ricerchiamo nella accecante misura della materia umorale; il cifraggio sensitivo del segnale permanente in materialità dissolvente, dissolvenza-embrione di una prospettiva trasfinita: il tempo, il tempestivo, predisposto in fasce verticali, in bande precipiti, coniugate a spigolo, a trigono, cristallizzato, immoto, come la semina, spargimento, di « tempi » originali, originari, proprio in gradus, in tagli dell’estremo improvviso di serie contemplativa; in timida, titubante, avventata fiction (immagine, emblema, sigillo appunto, stemma, stigmata di concezione psicotropica, di « delices ravissantes en géométrie »: reminiscenza, o apertura, di « tema-tempo » allo stato puro, svelato contro la « distesa » occupata dai suoi canali angolati e vertebrati, dalla sua assorta cerniera o raggrumo di metafora-enigma, come icone non labile, come moto di coscienza dirimente dentro la grande orbita della « percezione » costante, mobilitata alla sua intima incessante dislocazione e dilatazione, e qui, contro ogni decaduto e decantato « prospetticismo »; alla sua iterazione semplice, ma anche ambigua, ricercando l’ossatura, la « frastica », si dice, dell’involucro nudo, della cosa non separata dalla sua origine. Così ritroviamo in Cossyro il « segnale » di eminente araldica spazio-temporale; come processo mai problematico, ma emblematico, della immaginaria inventiva, che è limite e passaggio di sensibilità, e vettore di (e)vocazione scenica, di un parco oscillante, a lettura contratta e serrata, come inquieta dimora (vacante in senso di contemplazione incessantemente assorta), quasi fosse da inalbera, per armoniosa ma secca esercitazione, la inchiesta di un étymon di possibilità riconosciute dal « demone geometrico »: custode dell’essenziale differente-indifferente; là dove l’invasato operante è portato, non sappiamo bene come, a scuotere con risonanze non più geometriche la superficie (la extensio) senza frammentarla; e soprattutto, e tanto sovente, aggredita da abbellimenti e nozioni migranti (il vizio del colore non lo si perde mai, se uno ce l’ha; e comunque solo sotto uno sforzo disumano).
Con l’espediente operativo, in sè meccanico, dell’affronto, banda contro banda, striscia contro striscia, parete contro parete, specchio contro specchio, Cossyro drammatizza il medesimo contro l’individuazione generata, il medesimo contro il medesimo;l’asse « in/irmus » contro l’asse di flessibilità libera e ingenerata (una maniera di allucinazione che nasce e scompare), continuativa: lo spazio-deserto come disponibile alla semplicità del gioco freddo, e alla sezione di cieca, misteriosa, innumerabile e non avvitabile immagine che ci formiamo addosso, di pronta versione del micrótopo che la pittura denuncia come stesura orfica: cioè spazio-maggiore come colpo e colpo di memoria, come tentativo di un rito affascinante, come l’equilibrio casuale ma non confuso, delle linearità, dell’affilato combaciare delle identità geometriche, quali espansività di creazione: sempre lo sforzo dello spazio (non onirico, anti-onirico) di sfuggire alla propria ineluttabile immanenza, alla propria primordiale infanzia: è il passo che trascorre e che distanzia orizzonte da mythos.
« Spazio »vero, o ipotizzato da inconscia epifania-prigionia, tracce e ombre di landscaping, memorie da suggestione, da impressione del primitivo logos (il battito del tamburo nella geometria dei continenti), da suggestione, da impressioni, luoghi di confine dell’oscura esistenza; il moltiplicarsi e come riverberarsi di una fisionomica dello spazio sospeso alle sue stigmate (i suoi « segnali »), ai suoi annodi coscienziali, nidi di visione: velo e incarnazione in atmosfera imbandita, pura peripezia, perimetro del breve assurdo, e mutamento dell’esistere nell’inoltro; per assunzione calligrafica e topologica interferenza, figlie della materia comune, astrazione e silenzio del livello ideale, proprio, diciamo, come contropeso al «labirinto »: ma liberi, scatenati, rapinosi effetti riflettenti in semplice dirittura, nella disposizione di originari edetikói arthmói, « numeri che si vedono », « numeri con cui si vede », rigorosi, attivi.
Testo di Emilio Villa per il catalogo della mostra personale "L’angolo di Tanit", Marzo 1985.