Sintagma 1976
2 elementi: vetro opaco, specchio e neon
100 × 60 × 60 cm
XXI Premio Termoli 1976
Photo: Gianluca Di Ioia
by Marco Meneguzzo (grazie all'Archivio Nanda Vigo)

A PROPOSITO DEL TRIGGER “SINTAGMA”

Il titolo “Sintagma” con cui Nanda Vigo ha voluto identificare l’opera vincitrice del premio-acquisto al Premio Termoli del 1976 è un “unicum” nella sua produzione, emblematica dei suoi anni Settanta, in cui lo specchio – e lo specchio inclinato – sostituisce quasi del tutto il vetro industriale che aveva caratterizzato i suoi “cronotopi” degli anni Sessanta, con cui si era fatta conoscere nell’ambiente milanese legato a Lucio Fontana, e in quell’ambito internazionale e transnazionale che il Gruppo ZERO – di cui anche lei faceva parte - aveva così gioiosamente incarnato.

Con questo sentimento si possono pensare gli anni Settanta di Vigo come la prosecuzione e la verifica dell’intuizione globalizzante avuta nei Sessanta: le opere degli anni Settanta possono essere considerate come una verifica sul campo di alcuni degli aspetti universalistici _ la luce, il tempo, lo spazio - presenti nelle sue opere precedenti. Vigo, cioè, complice probabilmente quello zeitgeist anni Settanta, così ideologico e puntigliosamente analitico, nei lavori di questo decennio coinvolge l”intorno” dell’opera, il suo contesto spaziale e temporale, per suggerire sensazioni e aggiungere possibilità di lettura alla prima intuizione più tautologica. Negli anni Settanta c’è più attenzione al “topos” che al “cronos”, se Vigo costruisce “sistemi di frantumazione dello spazio” con i suoi cicli dai titoli più disparati ed evocativi – come il nostro “Sintagma”… -, ma tutti riconducibili agli “Stimolatori di spazio”. Si tratta di trapezi o piramidi di specchio, alcune internamente luminose, o anche di semplici specchi posizionati nell’ambiente, in modo che riflettano porzioni architettoniche e di cielo incongrue col resto, delle vere e proprie finestre spiazzanti che rompono la continuità e la contiguità di un paesaggio urbano, come nel caso di quest’opera. La prevedibilità di un paesaggio, di una linea, di un’architettura di fatto cancella la visione, la rende tranquillizzante e quindi la colloca sullo sfondo dello sguardo, ma se la prevedibilità viene interrotta bruscamente da un elemento mimetico (uno specchio è fortemente mimetico…) non solo quella porzione di spazio riflessa diventa prepotentemente visibile, ma tutto lo spazio acquista una personalità imprevista. Si innesca un processo percettivo irreversibile, di presa di coscienza dello spazio (e la parola inglese “trigger” – innescare, innesco – è tra le più usate negli scritti e nei titoli di Vigo) e del proprio essere nella storia dello spazio, e forse anche nello spazio della storia. Di fatto, è il momento di maggior adesione ai movimenti ideologici del tempo da parte di Vigo, mentre la sua personalità si libera sempre più attraverso performance ludiche, happening, presentazioni e interventi in galleria che hanno ancora il sapore di ZERO, ma come se fosse filtrato dalla controcultura hippy. Così, anche i suoi “stimolatori di spazio”, di cui questo “Sintagma” fa parte, diventano strumenti di un’azione liberatoria: più che opere vere e proprie sono protesi del corpo e del corpo nello spazio, e la riprova ne è che “proliferano”, non sono mai soli, sono fotografati a gruppi, in un sistema di relazione tra corpo umano, spazio e stimolatore, in situazioni di dinamismo cui non eravamo abituati, pensando ai “cronotopi” del decennio precedente. Ma lo spazio spezzato, frantumato, moltiplicato, è davvero l’opposto della luce unificante dei “cronotopi”?